Chi mi legge da un po’ ormai lo sa: nel mio blog viaggi e letteratura vanno spesso e volentieri a braccetto. Anzi, sono legati da un vero e proprio rapporto simbiotico.
Io non potrei mai viaggiare senza un libro e spesso è proprio grazie a un libro che trovo ispirazione per le miei destinazioni future. Così è successo che divorando la trilogia di Stieg Larsson mi è venuta una voglia irrefrenabile di andare a Stoccolma. Quando ho letto L’ombra del vento di Zafron sono dovuta tornare a Barcellona (dove torno sempre molto volentieri).
Lo chiamano “Triangolo di smeraldo” perché la zona è un intricato susseguirsi di foreste e montagne ammantate di verde, lì dove i confini di Cambogia, Laos e Thailandia si toccano. Siamo nella provincia di Preah Vihear, nell’estremo nord della Cambogia, in una zona remota e molto povera – fino a qualche anno fa non c’era una strada asfaltata – e non molto tranquilla.
Questa zona fu la roccaforte degli khmer rouge, gli spietati assassini invasati del regime del dittatore Pol Pot, fino alla loro caduta, nel 1998. Pol Pot e compagni restarono a lungo rintanati qui, tra le foreste, vicini al confine thailandese, pronto da utilizzare in caso di fuga.
Aeroporto di Suvarnabhumi, Bangkok. Sono stanchissima, l’aria condizionata è sparata al massimo e più di un aeroporto sembra di essere in una cella frigorifera. Però finalmente ci siamo, ci sono. Sono in Asia.
“Caspita, questo aeroporto è immenso” ricordo essere stata la mia prima esclamazione. Affollato, ampissimo, caotico. La gente si muove in un via-vai frenetico. E c’è tanta, tanta gente, una babele di popoli.
Ricomponiamo il gruppo e riusciamo finalmente a uscire dall’aeroporto, giusto in tempo per litigare con una coppia inglese con cui ci contendiamo un taxi. Il tasso di umidità è alle stelle; il caldo si fa sentire da subito.
Raggiungere il nostro hotel, in centro città, si rivela un’impresa. È rush hour a Bangkok e il traffico è terribilmente intenso. Ci mettiamo un’ora per arrivare. Qualcuno ha avuto la brillante idea di scegliere un hotel nella zona di Khao San Road, ovvero la zona più turistica di Bangkok, affollata di locali, ristoranti, bancarelle di street food e abbigliamento da thai boxe. Ci facciamo largo tra la folla con i bagagli.
Quella sera abbiamo un piccolo assaggio di Bangkok. Negli stand di streetfood fanno capolino insetti di ogni genere, cimici e scorpioni arrostiti, tutti pronti da assaggiare in versione spiedino (vuoi fotografarli? Devi pagare un dollaro). Grazie ma no. Non sono ancora pronta. Frotte di giovani occidentali affollano le strade e occupano le poltrone delle spa all’aria aperta in cui per pochi dollari ci si può far fare un massaggio ai piedi.
È un turbinio di colori, di odori, di rumori in quella che sembra essere una capitale del divertimento. A misura di turista occidentale. Sono abbastanza spiazzata. Il mio approccio con l’Asia non è esattamente come me l’aspettavo. Spiritualità, misticismo, pace interiore.. qui è l’esatto opposto. Dove sono??
L’indomani mattina abbiamo un volo che ci aspetta e si va a letto presto. Il nostro hotel è proprio accanto a un locale che spara musica disco “a palla” e mi basta poco per capire che quella notte non dormirò un gran che.
Come volevasi dimostrare. Nella mia stanza l’aria condizionata non funziona e nella vana speranza di dormire devo fare una scelta: o dormire con la finestra aperta ma con “Gnam gnam style” di Psy sparata a un milione di decibel (i tappi per le orecchie della Qatar Airways è come non averle) fino alle 4 di notte oppure dormire con la finestra chiusa (impossibile).Insomma, il mio primo incontro con Bangkok, e con l’Asia, non è cominciato proprio bene.
Per similitudine mi viene in mente il mio primo arrivo in Africa, nel piccolo e sgangherato aeroporto di Zanzibar, nel 2007. Che shock. Avevo sognato per mesi il momento in cui avrei finalmente messo piede sul suolo africano e mi immaginavo uno scenario idilliaco, in uno stato d’animo estasiato. Tutt’altro.
Sono a Bangkok solo di passaggio; l’indomani un altro aereo mi porterà in Cambogia, il paese che ho scelto per il mio primo viaggio in Asia. La similitudine è doppia: anche a Zanzibar ero solo di passaggio; dopo poco avrei preso un aeroplanino che mi avrebbe portato ad Arusha, nella Tanzania continentale.
La prima impressione è quella che conta? In molti casi non è vero. Ho già il sospetto che se il primo mio incontro un pò traumatico con l’Asia avrà lo stesso risvolto – oserei dire catartico – del mio incontro con l’Africa…. l’Asia assumerà presto un posto importante nel mio cuore.
“Perché l’Asia? Ci andai anzitutto perché era lontana, perché mi dava l’impressione di una terra in cui c’era ancora qualcosa da scoprire. Ci andai in cerca dell’altro, di tutto quello che non conoscevo, all’inseguimento d’idee, di uomini, di storie di cui avevo solo letto.”
Dici safari e pensi subito a lei: all’Africa. Eh sì, perché questa questa forma di perlustrazione, viaggio e avventura contraddistingue solo il continente africano. Dall’Uganda al Kenya, dalla Tanzania allo Zambia o al Mozambico, fino in Sudafrica, viaggiare in questa parte del mondo non può prescindere dal fare un safari.
Safari in lingua swahili – la lingua parlata per la maggiore nell’Africa orientale – significa semplicemente “lungo viaggio“. La parola safari non c’entra nulla quindi con le battute di caccia di un tempo (che però – ahimè – ancora si fanno in alcune aree, come ad esempio in Botswana). Un viaggio, il safari, che è giustamente definito “lungo” perché spostarsi in Africa significa attraversare spazi immensi, distese che si allungano fino all’infinito.
Safari è contemplazione dello spettacolo della natura, è il trovarsi piombati all’interno di un documentario che prende vita proprio in quel momento, proprio davanti ai nostri occhi e noi siamo lì, ne facciamo parte.
Ma quali sono gli ingredienti fondamentali per un safari perfetto?
Secondo me sono questi:
1 – Macchina fotografica
Secondo me la macchina fotografica è la prima cosa da mettere in valigia prima di partire per un safari. Questo tipo di viaggio è infatti una vera e propria spedizione fotografica. Si deve tenere sempre il dito pronto a scattare, poiché, quando meno te lo aspetti, ti potresti trovare di fronte un elefante, una leone che rincorre un impala o qualche animale difficile da avvistare.
Per un safari è consigliata una reflex con teleobiettivo (più è potente meglio è), in grado di “avvicinare” i soggetti (in questo caso gli animali).
2 – Una buona guida per riconoscere gli animali
Se state facendo un safari significa che amate gli animali, quindi sicuramente vi interesserà imparare a riconoscerli o saperne di più su di loro. Il massimo è avere una guida esperta con voi sulla jeep (una guida in carne e ossa intendo), che vi istruisca al riguardo e che vi racconti tutto quello che volete sapere sul comportamento degli animali, sulle specie endemiche e su come distinguere una specie da un’altra. Una buona guida cartacea, ad esempio una guida sui mammiferi africani, è l’elemento complementare perfetto.
3 – Abbigliamento adeguato
Lasciate a casa i capi troppo colorati (disturbano gli animali e attraggono gli insetti), sintetici (potrebbe fare anche molto caldo) o jeans stretti. In safari si deve vestire comodi, indossare colori chiari (come il bianco, il kaki, il beige), a strati, e portare scarpe comode (le scarpe da trekking o sandali tecnici sono l’ideale). Dopo il tramonto è un must indossare maniche lunghe e pantaloni lunghi: zanzare in agguato!
4 – Spirito di adattamento
Forse la cosa più importante di tutte.
Vicino all’equatore il sole si alza presto (in Malawi alle 5.00 ero già in piedi perché appena il sole sorgeva la mia tenda si trasformava in un forno). Gli animali sono attivi soprattutto la mattina presto e la sera in prossimità del tramonto, quando fa meno caldo. Ergo in safari ci si sveglia all’alba. Magari (consigliatissimo!) si dorme in tenda, ci si imbatte in insetti di ogni genere, si potrebbe non trovare l’acqua calda e il wi-fi…
E cosa dovete lasciare a casa:
L’orologio – In mezzo alla savana, nel cuore dell’Africa, vi dimenticherete di averlo. Semplicemente non vi servirà. Lì avrete come l’impressione che il tempo non esista. Esiste solo il tempo meteorologico, quello sì che fa la differenza. La stessa strada che con il sole si può percorrere in qualche ora potrebbe volere un giorno di viaggio in caso di un acquazzone o durante la stagione delle piogge.
Il cellulare – Molto probabilmente dove sarete non ci sarà campo o tanto meno connessione wi-fi. E poi sarete talmente rapiti dallo spettacolo intorno a voi che non vi verrà in mente di consultare il vostro smartphone (almeno spero).
Non so voi, ma a me capita quasi sempre che già prima di mettere piede in un posto ho alcuni luoghi in particolare che mi ispirano più di altri. Chiamatele ispirazioni, chiamatele fissazioni, ma fatto sta che questi luoghi mi chiamano e io ci devo assolutamente andare.
Nella maggior parte dei casi l’ispirazione è giusta e questi luoghi mi conquistano. Nel caso di Parigi è successo con Montmartre.
Social media specialist e web writer, appena posso faccio la valigia e parto. A novembre 2014 ho deciso di cambiare vita: ho mollato il mio lavoro e sono partita da sola zaino in spalla per 5 mesi nel Sud-Est Asiatico. Così è nato #ClamoreInAsia!