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La mia prima volta a Singapore: qualche consiglio pratico

Erano i primissimi anni ’80 quando in radio passava una canzone dal testo insulso  – come ne giravano tante in quegli anni – che nel ritornello ripeteva fino allo sfinimento “Singapore, vado a Singapore, vi saluto belle signore!“. Non so se fu per via del ritornello orecchiabile o per qualche altro recondito motivo, ma a me quel “Singapore” si impresse nella mia testa di bambina e viaggiatrice in erba.

Quel “Singapore” mi incuriosiva.

A marzo 2015 ho potuto finalmente dare un volto a quella città dal sapore così esotico e misterioso. Con la mia visita a Singapore ho realizzato uno dei miei sogni di viaggio. Ma non solo: Singapore ha lasciato il segno.

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Sopravvivere agli sleeping bus del Sud-Est Asiatico

Il primo della mia vita me lo ricordo benissimo: era giallo polenta e kitsch, con tanto di Winnie The Pooh aerografato sui lati e lucine al neon. Un pugno in un occhio insomma. Però sembrava moderno e in ordine e in un certo qual modo mi ispirava simpatia.

Io ero eccitatissima; fino a quel momento avevo viaggiato con bus, treni e sgangherati mezzi locali; dopo due mesi in viaggio nel Sud-Est Asiatico era arrivato il momento di fare questa nuova esperienza. In testa avevo mille domande e anche qualche ansia (come sarà all’interno? sarà comodo?riuscirò a dormire? la mia scorta di Travelgum sarà sufficiente? perché c’è scritto “good luck” in fondo al biglietto??). L’avrei scoperto di lì a poco.
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Ritorno a Phnom Penh

La leggenda racconta che un giorno una donna, di nome Penh, mentre passeggiava lungo il fiume Mekong trovò un tronco che conteneva quattro statue del Buddha. Madame Penh decise subito di deporre le statue in una pagoda sulla cima di un poggio alberato. Così sarebbe nata Phnom Penh, la capitale della Cambogia, e il suo tempio più importante, il Wat Phnom, che significa appunto “Tempio della collina”.

Un’aura di mito e leggenda pervade ancora la città, nonostante nel frattempo Phnom Penh sia diventata una metropoli da due milioni di abitanti affollata da frotte di turisti che la visitano in migliaia ogni anno e con il conseguente fiorire di ristoranti occidentali e hotel di charme.

Vista la prima volta nel 2012, nel mio primo viaggio in Cambogia, ne restai colpita e affascinata. Ma arrivando dopo giorni trascorsi nella campagna cambogiana, trovarmi nel suo caotico traffico di gente e motori fu quasi uno shock. Tornandoci ora, dopo essere stata per un mese tra le strombazzanti città vietnamite mi è parsa invece straordinariamente silenziosa. Ma sempre dell’idea che è una città piacevolissima.

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L’isola di Cat Ba: non la solita Halong Bay

Ci sono quei posti di cui leggi sulla guida, per caso, ed è subito amore. Ti scatta una scintilla dentro e hai come il presentimento che quel luogo ti piacerà. Lo sai già molto prima di essere lì. Così dici tra te e te che lì ci devi andare, è deciso. Non stai tanto a sentire i consigli di chi ci è già stato: se capita che ti fissi (con me funziona così), ti dici che un motivo ci sarà.

Con l’isola di Cat Ba è andata un po’ così. Compro una Lonely Planet del Vietnam di seconda mano in una libreria di Luang Prabang e mi metto a sfogliarla, senza la più pallida idea di dove sarei finita. Hanoi? Certo. La Baia di Halong? Certo che sì. E Cat Ba Island? Non l’ho mai sentita prima, ma già il nome mi ispira simpatia.

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Tappa imperdibile in Laos: le 4.000 isole

Le chiamano 4.000 islands (“4.000 isole”), ma il loro vero nome in lingua lao è Si Phan Don. Questa è una zona meravigliosa che si trova nel Laos meridionale, non lontano dal confine con la Cambogia, là dove il fiume Mekong raggiunge la massima ampiezza di tutto il suo tragitto dall’altopiano tibetano al Mar Cinese Meridionale.

Durante la stagione secca infatti il Mekong si ritira e nel suo placido scorrere lascia affiorare un numero indefinito (centinaia? o forse migliaia?) di isole, isolotti e lingue di terra. Forse non saranno proprio quattromila, ma il paesaggio è così suggestivo, l’atmosfera così rilassata e distesa, che fermarsi per qualche giorno diventa una gran fatica: quella di dover dire addio a questo posto fuori dal mondo.

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