Per molti viaggiatori è la prima tappa di ogni viaggio in terra laotiana che si rispetti, per molti è un’isola felice, per alcuni è motivo di sdegno. Per molti il Laos è Luang Prabang (mi permetto di dissentire: non è esattamente così), per tutti è comunque una tappa irrinunciabile, un luogo mitico che sprizza fascino già dal suo nome: Luang Prabang.
Io ci sono arrivata con calma, dopo qualche giorno nel nord del Laos, tra nebbie mattutine, umidità nelle ossa, villaggi tribali e paesi dimenticati da Dio. Arrivare a Luang Prabang è stato per me un po’ come trovarsi di fronte Disneyworld o per dirla all’antica il paese dei balocchi: bakery e caffé a ogni angolo, file ordinate di bancomat, ristoranti simil-occidentali, una profusione interessante di guesthouse, hotel e agenzie di viaggio. Insomma, tutto quello che ogni turista spera di trovare.
Ho per voi due notizie: una bella e una cattiva.
Cominciamo da quella cattiva. Luang Prabang è a misura di turista e se devo essere sincera forse anche troppo. Terzani la definì “uno dei luoghi più romantici e quieti dell’Asia, uno degli ultimi rifugi del vecchio fascino d’Oriente” (effettivamente un tempo era così), ma mostrando allo stesso tempo preoccupazione per quello che Luang Prabang stava diventando con l’avanzare del turismo. Quanto aveva ragione!
Luang Prabang (e non solo Luang Prabang del resto) purtroppo non è più quella di un tempo. Persone che l’hanno visitata in passato, anche solo una decina di anni fa, e ci sono tornate recentemente, mi hanno confidato di averla trovata molto cambiata. Cambiata in peggio, in un certo qual modo rovinata dalle frotte di turisti e dall’avanzare della globalizzazione (e cito ancora Terzani che scrisse in proposito “Che brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più malefiche!“).
Se qualche anno fa nelle strade si potevano vedere ancora donne intrecciare il bambù, ora a Luang Prabang abbondano i mercati di souvenir (made in China?), guesthouse e hotel non si contano, di ristoranti c’è l’imbarazzo della scelta. L’impressione è che ci siano più strutture turistiche che abitazioni effettivamente abitate dai locali.
Inoltre i prezzi sono notevolmente più alti rispetto al resto del Laos, soprattutto per quanto riguarda le soluzioni di alloggio.
Immagine esemplificativa dei disastri provocati dal turismo è il tak bat, la processione delle elemosine dei monaci che si tiene tutte le mattine all’alba nella zona dei templi di Luang Prabang (ma si svolge anche in altre zone del Laos). Quello che dovrebbe essere un rituale religioso, da vivere con rispetto e compostezza, diventa uno spettacolo di brutture da parte dei turisti. Macchine fotografiche e cellulari con flash puntati a pochi centimetri dai monaci, senza ritegno, tra chi intenta un selfie con i bonzi o fa gara per avere la foto più bella.
Nonostante questa premessa non proprio confortante, ecco la bella notizia: Luang Prabang non ha perso del tutto il suo fascino. Posizionata in una penisola, alla confluenza di due fiumi, il Mekong e il Nam Khan, e sorvegliata dalla collina sacra del Phu Si, Luang Prabang è Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco e le sue vie centrali, dove non possono circolare autobus o mezzi pesanti, sono tranquille e piacevoli da visitare a piedi o in bici.
In sella a una bici si può esplorare la città in modo molto piacevole. Molte guesthouse le mettono a disposizione dei clienti; ci sono anche diversi centri di noleggio (verificate la condizione della bici perché in genere sono parecchio sgangherate).
Cosa fare e vedere
Le attrazioni principali di Luang Prabang si trovano dislocate soprattutto lungo Th Sisavangvong, la via principale. Qui si trovano il Museo del Palazzo Reale (dove la famiglia reale laotiana visse fino al 1975) e il Wat Ho Pha Bang che custodisce il Pha Bang, la statua del Buddha più venerata in Laos. A pochi metri si trova il Wat Mai Suwannaphumaham.
Basta discostarsi di qualche via per trovarsi nella zona di Xieng Mouane, dove sorgono residenze coloniali francesi e antichi monasteri, come il Wat Xieng Mouane e il Wat Pa Phai. Il monastero più importante della città lo si trova però vicino alla punta della penisola: qui c’è il Wat Xieng Thong, il più visitato e il più fedele allo stile originale locale.
Il lungo Mekong e il lungo Nam Khan sono punteggiati di caffè e ristoranti dove vale la pena fare una sosta. Il mi posto preferito si trova però al di là del Nam Khan: un ponte di bambù – presente solo durante la stagione secca – porta al Dyen Sabai, un locale all’aperto dove è possibile andare a bere un drink o mangiare qualcosa rimirando il fiume. Un altro ponte di bambù, vicino alla punta dell’isola, porta a un piccolo baretto improvvisato in un bellissimo punto panoramico sulla riva del Mekong: ammirare il tramonto da qui sorseggiando una Beer Lao, la birra nazionale laotiana, è un must.
E poi – dulcis in fundo – c’è il Phu Si, la collina sacra che sovrasta Luang Prabang dall’alto dei suoi 100 metri. Sulla sua cima si trova il That Chomsi, uno stupa dorato e un piccolo ma suggestivo tempio, e la vista spazia a 360° regalando uno scenario emozionante. È il posto ideale per andare ad ammirare il tramonto, però sappiate che dovrete sgomitare per farvi spazio perché è il momento della giornata in cui il Phu Si è più affollato. Diverse scalinate portano alla cima; quella sul lato nord è la più facile da individuare; esistono però anche altri due sentieri, molto più suggestivi, sul lato sud e ovest, che si snodano tra templi e statue del Buddha.
Dall’alto del Phu Si sono rimasta a lungo, a riflettere e a sentire le emozioni scorrere. In mente le parole di Terzani e i suoi pensieri:
Seduto in cima alla collina di Wat Pusi a Luang Prabang, a guardare nella dorata pace del tramonto la commovente confluenza del maestoso, grande Mekong con il Nam Khan, piccolo e impetuoso, m’era parso che quelle acque melmose che si univano e si confondevano fossero davvero come la vita, anche la mia, fatta di tanti flussi, e che il passato, il presente e il futuro non fossero più distinguibili fra loro e fossero tutti lì, in quell’impetuoso scorrere.