Il mio visto scade tra meno di una settimana e prima di lasciare il Vietnam voglio passare qualche giorno nel Delta del Mekong, quindi so già che non avrò abbastanza tempo per gustarmi con calma Saigon.
Appena metto piede in città mi rendo conto che forse la parola “calma” accostata a Saigon un po’ stride. Se il traffico di Hanoi mi aveva impressionato, beh, qui è anche peggio.
Attraversare la strada è un dramma, farsi largo tra gli scooter che per ovviare ai semafori passano anche sui marciapiedi è un’impresa; cerco di adottare la stessa tattica usata ad Hanoi che gli stessi vietnamiti mi hanno insegnato (attraversare la strada piano, a piccoli passi, senza fermarsi, tanto i vietnamiti sanno come dribblare i pedoni), ma qui, in questa megalopoli di motorini e clacson impazziti, non è così semplice metterla in pratica. La soluzione? Sperare che quello che sto cercando sia sullo stesso lato della strada dove mi trovo già.
Cosa sto cercando? Mi sto dirigendo verso il Palazzo della Riunificazione, sede del governo del Vietnam del Sud, uno dei simboli storici di Ho Chi Minh City e di tutta la Guerra del Vietnam. Fu qui che il 30 aprile del 1975 fecero ingresso, passando sopra i cancelli di ingresso del palazzo, i carri armati dei Viet Cong, le truppe comuniste del Vietnam del Nord. Un soldato salì di corsa le scale del palazzo e raggiunse il balcone del quarto piano, dove espose la bandiera del Vietnam comunista. Al secondo piano il Generale Minh, nominato capo di stato appena 43 ore prima, attendeva impaziente. Fu in quel momento che la Repubblica del Sud cessò di esistere e il Vietnam si ricompose. La guerra era finita.
Chi ha letto Pelle di leopardo ricorda bene la descrizione di quei momenti raccontati magnificamente da Tiziano Terzani. Penso a lui e al suo racconto mentre salgo anche io, emozionata, le stesse scale di quel palazzo austero. È ormai trascorso un mese da quando sono in Vietnam, ho letto e ripercorso la sua storia, ho cercato di capire le dinamiche di quella guerra assurda, e ora che finalmente sono qui, sento gravare su questo edificio tutto il peso della storia, come se il palazzo fosse ancora pregno di quegli eventi e me li volesse raccontare.
La visita al palazzo è emozionante: si passano in rassegna le sale di ricevimento, l’ufficio del presidente e gli appartamenti presidenziali, le sale multimediali che mostrano documentari d’epoca, e la sorprendente rete di tunnel e strumenti di spionaggio del piano interrato, tra mappe e dispositivi di comunicazione impensabili. Tutto è stato lasciato come allora.
Saigon nel frattempo ha cambiato nome, è diventata la più grande metropoli del paese, il centro dei commerci, una città amatissima dai turisti e da molti expat che hanno deciso di viverci. Quella Saigon ha cambiato non solo nome, ma anche faccia.
Se una visita al Reunification Palace è d’obbligo, altrettanto lo è quella al War Remnants Museum, il Museo dei Reduci di Guerra, a pochi isolati di distanza. Pezzi di artiglieria, bombe, ma soprattutto fotografie, documenti e atroci testimonianze storiche. Di fronte alle fotografie dei bambini nati deformi a causa dell’uso delle armi chimiche da parte degli Americani o alle testimonianze dei mutilati di guerra è impossibile uscire senza gli occhi lucidi e la testa gravida di pensieri.
Il tempo di visitare un paio di pagode, di esplorare a piedi la zona di Dong Khoi e osservare gli abitanti di Saigon fare taichi nel Lam Son Park (adoro andare nei parchi, sedermi su una panchina e curiosare nella vita di tutti i giorni degli abitanti del posto) che è già ora per me di ripartire, non senza prima andare a visitare i famosi tunnel di Cu Chi, un distretto fuori Ho Chi Minh City dove sono visitabili alcuni dei tunnel scavati dai soldati durante la Guerra del Vietnam.
I tunnel sono stati ampliati ma restano strettissimi, percorrerli è difficile, manca l’aria, il senso di claustrofobia la fa da padrone. Ci fa da guida un vecchio militare che ci racconta gli anni della guerra, la vita tra quei cunicoli, stremati dalla fame e dall’orrore, aspettando che arrivasse il cessate il fuoco.
Prima di lasciare Saigon – a me piace chiamarla col suo vecchio nome, così come fanno i locali – mi tolgo uno sfizio: andare a prendere un drink da uno sky bar all’ultimo piano dei uno dei tanti grattacieli della città. Quel drink mi costa come tre pranzi e tre cene, ma l’appagamento è totale: la vista sulla città animata e colorata dalle luci della notte è un vero spettacolo da non perdere.
Mi dispiace Saigon, ora ti devo salutare. So di averti dedicato troppo poco tempo, ma il tempo stringe e ho ancora un paio di tappe da fare prima di lasciare il Vietnam. Giuro che tornerò a trovarti.